PRIME IMPRESSIONI FATALMENTE SBAGLIATE

I termini talvolta veicolano “prime impressioni”, fatalmente sbagliate (come spesso succede con le prime impressioni). E’ quello che accade, ad esempio, con le parole Struttura Forma.

Contrariamente a ciò che molti immaginano di primo acchito, la parola “struttura” non esprime affatto una rigidità o una fissità, quanto invece un movimento, un’azione. La radice –stra significa “stendere“, e da essa deriva “strato“, con l’idea di disporre a strati, mettere uno sopra l’altro, ordinare, connettere o congiungere, quindi costruire, fabbricare, innalzare.

La parola “forma” alla quale invece si è abituati ad attribuire una sorta di plasticità e maggior mobilità, etimologicamente viene dalla radice -dhar che sta per “base” e implica “sedersi“, “stare fermo“, da cui ad esempio “dharma“, che traduce il latino “firmus“, fisso, stabile. La forma è ferma, come testimonia la parentela etimologica tra i due termini.

La struttura è un insieme di passaggi e giunture, snodi, punti di connessione, relazioni. La forma è invece il fissarsi in istantanee, in immagini, in costellazioni ma anche in modelli, di ciò che la struttura veicola.

L’Arte (la cui etimologia riporta alla radice –ar, che sta per “andare“, “mettere in moto“), più di ogni altra cosa, sembra mettere in condizione di dialogare la struttura con la forma mentre questo non può accadere né con i miti, né con qualunque altra produzione che sia suscettibile di essere “elevata” a simbolo. Anzi, dovremmo dire “abbassata” a simbolo. Infatti la simbolizzazione è una prigionia formale rispetto al dinamismo della struttura. Se l’opera d’arte inizia a subire interpretazioni simboliche, o se è stata congegnata per veicolarle, in fondo viene uccisa o uccide se stessa.

L’ABBASSAMENTO A SIMBOLO: IL SIMBOLO COME COAGULA

Nel concetto espresso qui sopra, non metto in discussione la forza del simbolo, né voglio mettere minimamente in dubbio l’apertura del simbolo o la sua potenza trasformatrice ecc., quanto piuttosto il processo di simbolizzazione, cioè quello che porta qualcosa a diventare simbolo, e quindi forma. Per questo dico “abbassare a simbolo“, perché

il simbolo è il coagula che fissa il movimento di una struttura dinamica in una forma.

E ogni coagula, “simbolicamente” appunto, sta in basso, è un precipitato, una condensazione.

Approfondiamo ulteriormente il ruolo del simbolo. Contrariamente al “segno” che la Scolastica definisce come “qualcosa che sta per qualcos’altro“, esprimendo così la relazione tra significante e significato, il “simbolo” non avrebbe affatto questa caratteristica. Lévi-Strauss, Corbin (di cui si parla anche in questo articolo), Durand, Hillman, Galimberti – come quasi chiunque si occupi di questo – insistono sull’irriducibilità del simbolo a segno, quindi sull’impossibilità di trattare un simbolo come un significante, stante l’ambiguità stessa del simbolo (ti invito a leggere un interessante articolo introduttivo sull’Immaginale qui).

Questo vale in particolare per le immagini, più ancora che per enigmi, parabole, fiabe, geroglifici, emblemi o stemmi. Per esempio in tedesco “simbolo” è reso con “sinnbild“, dove “sinn” sta per “senso/significato” e “bild” per “immagine“: saremmo tentati di intenderlo come “significato dell’immagine”, invece i tedeschi sono profondi e la parola significa “immagine del significato“; il che è sublime, essendo un’immagine già esprimente appieno il suo senso, senza bisogno di inferire verbose interpretazioni nascoste o recondite.

Mentre in arabo, “simbolo” è “mathal“, termine la cui polisemia gli permette di esser reso anche come “detto“, “adagio“, ma in generale traduce “simbolo“. Ora, “mathal” viene definito come “una cosa che sta per un’altra cosa“, cioè con la stessa definizione che la Scolastica ha dato di “significante”, quindi nel mondo arabo la distinzione tra “simbolo” e “segno” è decisamente sfumata per non dire assente (ci si potrebbe chiedere se questo abbia a che fare con la censura delle immagini nel mondo dell’Islam).

QUESITI APERTI SUL RUOLO DELL’IMMAGINE

Quando un’immagine viene sostituita dal verbo scritto, sebbene arrangiato in forma di immagine, potremmo avere un assottigliamento della distinzione tra simbolo e segno, proprio perché la parola scritta è il significante per eccellenza.

Mi interrogo sul ruolo dell’immagine, che non funziona come la “parola” nel rapporto tra significante e significato e ciò che mi interessa è confrontare l’acume della lingua tedesca e l’eccezionalità di quella araba rispetto a questo rapporto tra immagine, significato, o parole che diventano immagini. La sofisticata sottigliezza della lingua araba può consentire di veder coabitare livelli fonetici, linguistici e in questo caso anche estetici.

In ogni caso, lo schiacciamento del verbo in immagine sottrae spazio all’interpretabilità, che è il “lato debole” del linguaggio simbolico. Abbiamo trasformato l’ambiguità del simbolo in un “mistero”, cadendo nel tranello di “elevare” il simbolo a qualcosa di “altro” mentre è “solo” un nostro linguaggio. Essendo quello simbolico un linguaggio, tra l’altro con connotati legati a tradizioni di ogni tempo e ogni luogo del passato, quale “alterità” o “ignoto” potrebbe mai veicolare, salvo quella che noi intenzionalmente o meno gli attribuiamo? Si rischia di dare al simbolo una superiorità e una priorità che vediamo solo noi, in quanto la vogliamo vedere. Esiste una vera “alterità” nel simbolo? O è solo ciò che noi inferiamo e “proiettiamo” sul simbolo stesso per via delle caratteristiche “aperte” che lo contraddistinguono?

Possiamo immaginare un futuro in cui la metafisica del linguaggio simbolico cessi di suscitare la fame di ciò che è nascosto, occulto, segreto?

Lascia una replica

error: I diritti sui contenuti sono riservati agli autori e concessi in esclusiva ai proprietari del sito.