Di tutto ciò che si può dire – sempre troppo – sulla dimensione simbolica, una delle contraddizioni più evidenti e ineliminabili riguarda la necessità di “spiegare” i simboli, ovvero letteralmente di “togliere le pieghe”.
Eppure proprio in quelle pieghe vive il potere del simbolo. Un simbolo spiegato è un simbolo morto, tradurre è tradire, svelare è svilire, come tutti sappiamo e ci ripetiamo.
Nonostante la nostra consapevolezza in merito, ci risulta impossibile rinunciare a questo stupro del simbolo.
La violenza della ratio indagatrice, analitica, assetata di definizioni, è una necessità, non solo un piacere. La contemplazione silente non ci può più bastare. Dovremmo rapportarci così, in un approccio passivo e aperto, ma questo metterebbe in crisi la nostra stessa stabilità, che si fonda sul limitare la potenza dell’immagine, attraverso le parole prevalentemente. Il bisogno di portare a livello conscio i contenuti che agiscono e funzionano nell’inconscio è parte integrante del percorso di graduale edificazione della ratio stessa, il cui Logos si è affermato proprio in maniera direttamente proporzionale alla formazione di un inconscio, di un rimosso, uno sprofondato.
Le spiegazioni che forniamo, componiamo, intuiamo, nei confronti di un simbolo, sono sempre costruzioni a posteriori. Ci piace pensare che siano sempre state lì, ad attendere solo che qualcuno alzasse il velo e scoprisse il “vero senso nascosto”, ma non è affatto così. Noi le proiettiamo, le costruiamo, e pensando di scoprirle esaltiamo la potenza della ratio.
Rapportarsi a ciò che non ha possibilità di definizione e sfugge ad ogni tentativo di esaurirne il senso è proprio il compito della ragione, che cerca di contenere il potere del simbolo per non rischiare di venir soverchiata.
E’ una gara tra potenze. La ratio vince (o si illude di farlo) perché finché vivremo in questo stato di coscienza è proprio ciò di cui abbiamo bisogno, illuderci che ciò che noi proiettiamo dietro il velo sia una “verità” scoperta dalla ragione, ma è la ragione stessa che lì l’ha messa. Il significato che pensiamo di scoprire è una nostra produzione, e il giochino serve a tranquillizzarci e consolarci rispetto a due fattori fondamentali: l’ambiguità intrinseca nella natura simbolica, che risulta poco sopportabile alla ratio, e l’eventuale mancanza di significati definibili, vera cifra della contemporaneità. Questo tentativo di razionalizzare il simbolo è l’equivalente di uno stupro (ricorriamo a una metafora, dal sapore simbolico, perché le immagini si razionalizzano attraverso altre immagini, paradossalmente).
Lo stupro del simbolo è un piacere, un bisogno, un tentativo di raffreddare l’incandescenza della materia immaginale, che per la sua natura solvente impedirebbe alla ragione di fare ciò per cui esiste: definire, circoscrivere, limitare.
Inoltre è una questione di soddisfazione. La conoscenza funziona come una semplice trappola: voglio alzare il velo di ignoto e dare un posto ad ogni cosa. Non è il suo “vero” posto, ma mi basta credere che lo sia, o che temporaneamente sia in linea con gli altri contenuti incasellati in precedenza, per risultare soddisfatto.
Questa soddisfazione si traduce in una forma di schiavitù: quella dal significato. Trovare un significato, o più significati, è il fine dello stupro, del saccheggio del simbolo da parte della grande predatrice affamata di senso.
E’ necessario assumere questa postura della nostra coscienza come un gioco, per provare a concedere spazio ad esercizi in sui si provi la contemplazione passiva, e si consenta al simbolo o all’immagine di penetrare la coscienza, per trasformarla com’è in grado di fare. Il simbolo è privo di contorni netti, se invadesse la coscienza con la forza della sua ambiguità, entrerebbe in risonanza con la parte più vulnerabile (ma tutt’altro che innocua) della nostra psiche: l’inconscio. Cadrebbe la nostra possibilità di interpretare.
Nel frattempo, accettando la nostra natura di stupratori seriali, collezioniamo illusioni temporanee, nell’attesa che un giorno si comprenda che dietro il velo non vi è nulla da scoprire, tranne ciò che abbiamo proiettato.
La consapevolezza dell’assenza di senso non svuota il simbolo della sua potenza, svuota la ratio della sua attitudine. E’ sempre meno possibile trovare soluzioni, definizioni, mentre avanza l’erosione delle certezze: l’ambiguità di una realtà insolubile è il miglior regalo che un simbolo può offrirci. Nel frattempo, abbandoniamoci ai piaceri dello stupro, non ci resta molto altro da fare.
In copertina:
Leda col cigno di Giovanni Boldini